( di Curzio Vivarelli) Fu scritto da Bachofen un bel libro che in traduzione s’intitola “Paesaggi dell’Italia centrale”. In questo testo il grande studioso del mondo delle Madri e della virilità olimpica lega all’ostile paesaggio laziale ora, al mistico paese umbro, poi, i caratteri che plasmarono gli antichi popoli della penisola. Caratteri che in seguito si diffusero lungo i “vera sacra”, quando i giovani delle varie stirpi italiche partivano all’avventura per fondare villaggi e colonie le impervie valli dell’Appennino.

Più a settentrione delle impervie regioni laziali e umbre, il paese di Versilia non è più dell’Italia centrale; l’Alpe marmifera si congiunge all’Appennino Ligure e questo, senza sciogliere la linea continua delle sue vette si unisce alle Alpi marittime dell’estremo occidente della penisola. E  chi può descrivere questa Versilia nella sua ricorrente, rinnovantesi, rifiorente poesia? Il Carducci innanzitutto, e poi lo hanno fatto il Pascoli, e ancora più D’Annunzio. E poi, in una prosa stupenda, Enrico Pea, e Lorenzo Viani e, forse, Aniceto del Massa. In pittura invece furono Carlo Carrà, Ardengo Soffici, Felice Carena, Sigfrido Bartolini, i quali però non furono i soli.

Intorno a "Paesaggi dell'Italia centrale", libro di Johann Jakob Bachofen

Fra coloro che in ritardo, e usando penne di gabbiano e inchiostro da timbri, disegnano sbavando su striscioline di quaderno, di sicuro però ci sono anch’io a disegnare reminiscenze versiliane cui si congiungono suggestioni carducciane. 

La poesia del Vate di Confessioni e Battaglie, se è possibile darle delle delimitazioni di spazio, si fa ondosa e urlante come un mare agitato quando descrive la Maremma, e poi soave con i lontani ricordi versiliani di Valdicastello presso Camaiore, ma si placa infine con il maturo senso descrittivo della Bologna fòsca e turrita e della sua pianura, dei lontani paesaggi veronesi, quali s’intravvedono oltre la foschia se si sale a San Luca o se si fanno tutte le rampe che conducono in cima alla torre degli Asinelli.

Vari elementi mi convincono che il Carducci, per quanto non mi sembri interessato troppo alle arti plastiche, ed un po’ di più all’architettura ma senza alcuna affettazione di profondità, sia colui per il quale il nudo semplice paesaggio della Toscana e poi dell’Italia centrale in genere, sia assurto a paradigma di stile per ogni pittura in un Carrà in un Soffici, in Carena e per finire anche in Sigfrido Bartolini.

Intorno a "Paesaggi dell'Italia centrale", libro di Johann Jakob Bachofen

Egli, con le sue potenti descrizioni, robuste e rubeste ha letteralmente tracciato i disegni di paesaggio tenendo in mano, lui, il carboncino o il lapis di Carrà e Soffici attraverso l’uso della parola. Non si spiega altrimenti la cabina di legno solitaria sull’arenile, o la casetta sul ciglio d’una strada nei quadri dell’Ardengo oppure le case coloniche e gli annessi fienili con i “tetti alla salvatica” di vasariana memoria nei dipinti del Carrà. 

Non poteva certo essere un D’Annunzio a tenere in mano il lapis e il carboncino dei pittori suddetti, sebbene pure lui abbia descrizioni magnifiche del paesaggio di Versilia e poi di quello umbro e laziale e assieme a quelli anche delle nostre architetture. D’Annunzio tende infatti a segnare con un certo barocchismo di frasi i particolari più ricercati e belli d’una prospettiva che vede e ciò fa più pensare ad un quadro simbolista, di respiro internazionale se vogliamo, ma meno lo stile scabro e nudo, tipicamente da anni trenta dei pittori che ho nominato i quali restano piuttosto gli eredi dell’ impetuoso poeta dei cipressi di Bolgheri.

Da turista che si mòve col caval di San Francesco per periferie e campagne e che continua a schizzare disegnetti sull’agenda non potevo non leggere quel brevissimo aureo volumetto del Bachofen che ho nominato sopra.

Rileggere Bachofen

Ora sono alla seconda rilettura ma non credo di poterne esaurire i temi e le concordanze sottili nemmeno alla quarta rilettura. Più breve è un testo e più lo scandaglio dei pensieri d’un insigne e geniale precursore si perde in abissi oscuri e gelidi e però forieri di tesori.

Il suolo argilloso, le fitte macchie di lecci, roveri, olmi e carpini delle pianure umbre e laziali, le valli che paiono il solco d’un aratro ciclopico fra catene montuose che persino nella dolce Umbria fanno svettare qualche cima a duemila e cinquecento metri di quota, fra le nevi ed il gelo, i paesini aggrappati sui declivi o le case coloniche disperse nelle pianure malariche senz’ombra, sono descritti a brevi frasi da questo studioso-poeta del diritto romano.

Ed egli ti avvisa anche: poco può la sua descrizione aggiungere alle belle pagine consegnate alla letteratura da Plinio, da Tito Livio, da Strabone e dagli altri viaggiatori dell’età classica, inarrivabili per lo stile e per il colpo d’occhio miracoloso nel carpire al paesaggio la sua specificità ed anche la inerente poesia.

Intorno a "Paesaggi dell'Italia centrale", libro di Johann Jakob Bachofen

Ma detto questo ecco il nuovo miracolo: dalle pagine del Bachofen, tradotte con ammirevole perizia,  hai dinanzi gli occhi nuovamente i paesaggi laziali e umbri, cui s’è aggiunta la villa rinascimentale che fa da contrappunto alla scomparsa dell’antica città preromana. E di nuovo il colpo da maestro del grande Svizzero: mai come in questo paesaggio i millenni si tangono e son presenti agli occhi in un solo istante. Si è in un presente che ha pure il respiro del lontanissimo passato: i millenni si restringono a soli baleni in uno sguardo sulla valle rigata da un canale inselvatichito e con poca acqua: il canale fu scavato dagli antichi Italici ed ora sembra un’opera della natura.

L’esemplare a stampa che ho, edito nel 2019 dalle Edizioni di Ar, mi si era lievemente danneggiato per imperizia mia nel poggiarlo: l’inchiostro delle mie acquerùgiole con penna di gabbiano aveva fatto qualche danno e allora ho voluto nasconderlo e ho disegnato per mio conto, con una penna stilografica, un fregio in copertina che mi pare anche riuscito. O almeno pareggia il danno e mi dà anche un primo colpo di tamburo all’immaginare per mio conto questi paesaggi dai quali venne la lingua latina che noi usiamo per esplicare i nostri pensieri.

Da adepto del “paesismo” pittorico, in special modo di quello fortemarmino e apuano, da lettore della prosa del Carducci, era naturale che volessi leggere come un affamato il testo del Bachofen

Die Lanschaften Mittelitaliens

ovvero “Paesaggi dell’Italia centrale”. Sapevo però fin da principio che io, col mio mondo di fantasie sul tema carducciano versiliese, fiorentino, bolognese, veronese et cetera, sarei stato solo uno spettatore di lontano delle “Landschaften” popolate di pastori laziali che a cavallo, nel grigio ottobre discendono colle greggi giù nelle maremme desolate del latifondo romano. 

Nulla vi è in comune, malgrado il medesimo orientamento sul mare di Corsica tra l’arenile e la pianura di Versilia e la Maremma laziale: evvi solo lo sbocco sul mare e il monte alle spalle ma non bastano questi due soli astratti caratteri per una parentela. In Versilia l’Alpe è a ridosso , stretta è la pianura e solcata di soli brevissimi torrenti tanto poveri d’acqua in estate quanto rabbiosi d’alluvione in ottobre e novembre.

Là, nel Lazio, vi è la vasta pianura, intristita dal latifondo sonnolento, dal grigiore dell’aria malarica che vela di foschia e di nebbia la vista dei monti lontani. Torrenti e fossi hanno un po’ d’acqua in più e vi sono alcuni fiumi, il Tevere fra questi, a dar respiro con le lunghe anse alla monotonia del piatto paesaggio. 

Ecco che allora leggo e rileggo le pagine del dotto Svizzero che descrive i paesi che lui ha visto e percorso da viandante fin dal 1848, quando s’era precipitato a Roma dopo aver bevuto, a Berlino dal von Savigny, la dottrina del primevo diritto romano, erede di consuetudini latine ed animato dall’arcaica lingua. Che non era ancora quella stupenda e concisa di Cesare o quella simmetrica, controllata ed ornata di Cicerone, la lingua detta “aurea”, bensì era il latino aspro e brusco d’un Catone.

L’efficacia della lenta ponderata prosa di Bachofen la si misura nel fatto che i particolari paesisti lui li descrive in una riga e tu li vedi subito dinanzi agli occhi pur se non hai memoria propria di escursioni laziali. E questo è appunto il mio caso. 

Vedi i monti azzurri lontani, dal profilo triangolare inconfondibile dell’antico e scomparso vulcano, senti nelle macchie lo stormire delle fronde di lecci, roveri, carpini.  Vedi vicino al casolare diroccato il cipresso solitario, su di uno stagno d’acque morte s’inclinano brillando d’argento i rami flessi dei salici, volano stormi di corvi che stridono, una torre d’avvistamento in rovina concede ombra al cacciatore in silenzio che fa riposare il cavallo…

È un paesaggio lontano da quello di Versilia. Qui la natura e la regione hanno plasmato il cavatore, il navigatore e lo scultore, là, nel Lazio, la vita e la forza plasmatrice degli elementi dovette esser molto più dura perché ne venne fuori un popolo severo, avvezzo alla disciplina del costume, e non così incline all’estro artistico come il toscano…

Nei ritagli di tempo io continuo a trasformare il mio libretto del Bachofen in una edizione casalinga illustrata. Mi ricordavo d’un fortunato volume sui monumenti di Roma antica che esibiva le belle illustrazioni d’un buon incisore del primo seicento: Pompilio Totti. Il libro aveva titolo: Ritratto di Roma antica. Ne avevo in casa un piccolo estratto e ho cercato di imitarne lo stile. Per il frontespizio del mio Bachofen ho copiato a lapis un particolare da una pagina del Totti e poi ho ripassato i segni colla penna stilografica. Infine ho dato una ripulitura con la gomma da cancellare.

Non ho alcuna pretesa d’arte nel mio intento bensì voglio documentare su ogni margine senza stampa del libro qualche paesaggio dell’Italia centrale come lo vedo in quadri antichi o in vetuste incisioni. In questo modo la futura rilettura del testo -ho di già detto che questa è un’opera da leggere, leggere, leggere, leggere e rileggere- può giovarsi d’un aiuto in forma di suggestione paesista dalle mie illustrazioni aggiunte.

 Pel frontespizio ho disegnato quella che il Totti disse esser la capannina nella quale il pastor Faustolo accolse i due gemelli Romolo e Remo e ne prese cura. Il paesaggio a tergo della costruzione è collinare con dei monti sullo sfondo. Una quercia cresce rigogliosa presso la capannina.

Nella prosecuzione di questo lavoretto per passatempo mi garbò, sfogliando vari cataloghi, un quadro di metà ottocento con un desolato paesaggio della pianura laziale, le rovine d’un acquedotto e, lontano, in fondo una catena di monti (fra questi forse il San Gennaro?). In primo piano v’era un arco in pietra sul quale, con il passar dei secoli era cresciuto un albero. Era la “natura naturans” che riprende il suo transito nel tempo e con discrezione torna a dominare sulle pietre squadrate dagli architetti di imperi tramontati. 

È bello, nel testo del grande Bachofen, l’eterno ritorno dei testi classici e della loro saggezza: Plinio racconta che codesti monti in fondo alla pianura erano più alti, e i fiumi scendevano dalle loro valli con impeto di adolescenti. Al passare dei millenni i monti furono levigati dal vento e dalle nevi e si abbassarono, mentre i fiumi persero l’impeto delle acque ma non morirono: semplicemente si ridussero a fonti.

Non fu un male: il fiume delle età remote, scavate le rocce, esauritosi nel bel mare del Lazio oltre la pianura, contraendo le acque le faceva sgorgare da pietre ricche di minerali e il flutto non dissetava soltanto, ma diveniva acqua medicamentosa. 
Che mirabile il tempo che fa maturare in spirito e dottrina la semplice pietra e l’ acqua castissima e unisce entrambe in una medicina per molti mali. Mi avvedo solo ora delle poche linee che sono in capo alla pagina di frontispizio:

Lang ist die Zeit, es ereignet sich aber das Wahre…

Non le avevo lette, e meno ancora la poesia dell’Hölderlin donde esse parole provengono, ma le trovo adeguate a ciò che mi viene da pensare a rivedere questo bozzetto disegnato per passatempo decorativo sulla pagina d’un libro che mi è caro: e volterei così queste poche parole tedesche lievemente discostandomi e, nel formulare l’ipotesi del “se”, rendendo palese un qualcosa dell'”implicito” di questi due versi

… e se lungo pur sia il tempo,/d’esso curar non serve; /ché il Vero in ogni caso/ s’invera…