(di Stefano Tenedini) Confindustria alla fine un presidente l’ha trovato. E domani Emanuele Orsini, emiliano di Sassuolo, 51 anni e amministratore delegato di Sistem Costruzioni (a questo link il sito in cui egli stesso ha scelto di presentarsi), presenterà la sua squadra di vicepresidenti e il programma per il quadriennio 2024-2028 al Consiglio generale, che lo aveva designato con 147 preferenze su 173 votanti. L’ultimo passaggio per diventare il 32° presidente di Confindustria sarà il gradimento dell’assemblea dei delegati, convocata il 23 maggio. Ma come siamo arrivati a questa elezione, che era partita con ben altre ipotesi e prospettive?
L’Adige lo ha chiesto a un panel di imprenditori (grandi, medi e piccoli, di vari territori, settori e preferenze) con un innocuo accordo diplomatico: “Voi sinceri ed espliciti, noi muti sulla vostra identità”. E queste, che presentiamo ai lettori come se fosse un’intervista corale, sono le opinioni che abbiamo raccolto. Cominciamo da qui.
Come giudicate questa elezione a sorpresa, dopo che per mesi s’è detto e scritto che il vincitore sarebbe stato certamente un grande imprenditore, o se non altro un “imprenditore grande”?
Beh, andiamoci piano. Orsini non arriva certo come un fulmine a ciel sereno, perché anche se non sembra sono quattro anni che fa campagna elettorale… Se non altro così ha visto premiata la sua tenacia. Diciamo che forse il confronto non ha avuto un esito scontato, ma è stato comunque serrato. Per spiegarci la prendiamo alla lontana, da quella che qualcuno da definito “la battaglia dei Past (president)”, perché i due contendenti più quotati potevano contare su altrettanti storici big di Confindustria. Dopo, però…
No, un attimo, proseguiamo con ordine. Chi erano i due candidati principali, chi erano i big che li sostenevano e qual era la mappa delle alleanze tra comparti e territori?
Confindustria, una sfida tra “past president”: ecco perché l’ha spuntata Orsini
I candidati rispondevano perfettamente all’identikit preliminare: Edoardo Garrone, numero uno di Erg, e Antonio Gozzi, presidente di Federacciai. Al loro fianco, come se i contendenti fossero dei “proxy” da utilizzare in prima linea nello scontro fra grandi potenze, si sono schierati due past president del calibro di Emma Marcegaglia per Garrone e Antonio D’Amato per Gozzi. Negli ampi spazi rimasti liberi sono emersi fin dal principio per Alberto Marenghi i consensi di Assolombarda e l’apprezzamento di numerosi territori, anche nel Sud, mentre Orsini all’inizio è rimasto a osservare le mosse continuando a tessere la sua tela, già abbastanza solida ma non sufficiente a spostare gli equilibri.
Che motivazioni c’erano dietro la disfida dei “Past”, e quale linea avrebbe potuto raccogliere più voti nella fase conclusiva, dopo gli incontri con i saggi?
Non è un segreto che tra Marcegaglia e D’Amato ci sia da sempre una diversa visione sul ruolo di Confindustria e su come svolgerlo. Non necessariamente uno scontro, piuttosto l’appartenenza a due mondi con approcci diversi al rapporto tra politica e industria. Ma questa divergenza di fondo si è saldata a un bisogno diffuso e molto condiviso: dopo varie presidenze di medio profilo e dimensioni – come Bonomi, senza che suoni come un giudizio – molti avevamo in mente un leader solido, capace di esprimersi con la forza di un imprenditore vero davanti ai governi. Era Gozzi, che in sostanza piaceva a tutti perché ci si riconosce facilmente in lui: è uno che parla chiaro. E infatti ci sono state e restano molte perplessità sulla sua esclusione dalla corsa finale.
Sì, ma “parlare chiaro” di cosa? Perché nemmeno Bonomi era reticente, e i suoi scontri con politica e sindacato li ha avuti. Lasciamo stare i risultati, però lui c’era.
Allora, senta: Gozzi ha detto che occorre fare una battaglia in Europa, andare a chiedere per avere e non per farsi mettere all’angolo su tutti i temi caldi. A Bruxelles non hai di fronte i politici ma i burocrati, e le faccio la lista della spesa: sull’intelligenza artificiale noi resteremo fermi al palo mentre Stati Uniti e Cina saranno liberi di correre; sulla sugar tax e sulla plastic tax e su diversi altri dossier ci metteranno in difficoltà; continuiamo a subire gli effetti della visione iper green di Timmermans sulle direttive per il riciclo o contro l’automotive europeo, ancora a danno dell’Europa favorendo i cinesi. Gli invisibili di Bruxelles hanno sconfitto anche la forza dei tedeschi.
Sullo sfondo l’atteggiamento nei confronti della UE: “Ci sta svantaggiando”
Capisco che alla vigilia del voto l’Unione Europea stia affrontando una fase molto complicata, ma questo non c’entra direttamente con la corsa alla presidenza di viale dell’Astronomia…
Altroché se c’entra! A livello nazionale oggi Confindustria ha un problema di persone e competenze: e non lo dico pensando solo agli associati, ma ai dirigenti e ai funzionari. Mancano figure chiave in grado di condurre queste battaglie e di sostenere con idee e visione il presidente e i suoi vice, che per quanto preparati non possono fare da soli. Una volta quelli bravi lasciavano le aziende per andare a Roma, ma da un po’ succede troppo spesso il contrario: si fa sempre più fatica ad attrarre i talenti, così gli gli imprenditori spesso sui temi importanti si muovono da soli. Insomma, dai: devono fare i supplenti.
Invece, a proposito dei “poteri forti” del territorio: se Assolombarda era per Marenghi, perché non è andata avanti e non lo ha sostenuto più a lungo ed esplicitamente?
Alla fine anche Milano si è piegata alla volontà del “club del caminetto” legato alla linea Marcegaglia, che aveva il sostegno di Montezemolo, Bracco, Tronchetti Provera. I lombardi erano sì per Marenghi, ma si sono anche resi conto che per costruire una Confindustria necessariamente d’assalto ci vuole la maggior forza possibile. Da veronesi ci è dispiaciuto, perché oltre ad Assolombarda avrebbe potuto contare sul sostegno di Verona e Vicenza e su quello cospicuo della Piccola. E da vicepresidente di Bonomi con la delega all’organizzazione, sviluppo associativo e marketing, in quattro anni ha girato l’Italia costruendo una rete di collegamenti e consenso che avrebbe potuto renderlo competitivo nelle fasi successive.
Torniamo un momento a Garrone: come spieghiamo la stranezza di un candidato forte che si tira fuori all’ultimo momento? Cosa potrebbe essere successo per spingerlo a rinunciare?
Non emerge alcun motivo serio o certificato. L’ipotesi più ragionevole? Garrone è un imprenditore forte, importante, che ha un gruppo e un passato di tutto rispetto. Se avesse intuito che poteva vincere o perdere, magari per pochi voti, potrebbe essersi chiesto: “Ma chi me lo fa fare?” Oppure, senza fare del complottismo, potrebbe aver ricevuto pressioni o segnali che lo hanno spinto al passo indietro. L’ultima lettura è cinica ma verosimile: il rapporto con Orsini non si è mai radicalizzato né interrotto, e la sua rinuncia a competere potrebbe aprire qualche opportunità tra i vicepresidenti per chi lo ha sostenuto. Sullo sfondo resta anche il confronto sotterraneo tra PMI e grandi gruppi, tra aziende private e di capitale pubblico, tra nord e sud, est e ovest…
Proviamo a fare come a scuola, con la lavagna dei promossi e dei bocciati. O meglio: si sa chi ha vinto, cioè Orsini, ma è ancora più interessante capire a questo giro chi ha perso.
A Verona nessuno lo ammetterà direttamente, ma abbiamo preso atto senza piangere della sonora sconfitta di Confindustria Veneto Est, nata dall’unione di Venezia, Padova, Rovigo e Treviso con l’ambizione di orientare le scelte del Nordest e decidere ruoli e poltrone. Beh, dall’elezione di Orsini è uscita con le ossa rotte senza essere riuscita a trovare consenso su un nome credibile. La verità è che stanno insieme sulla carta ma non è ancora una fusione reale, e a questo punto chissà se lo sarà mai. Non hanno ancora messo insieme i patrimoni, hanno ancora i presidenti-reggenti e la costruzione stessa mostra molte crepe.
“Verona? Non facciamo abbastanza a nostri interessi: strategia da rivedere”
Passiamo dal Nordest a Ovest, che per noi inizia appena di là dal Mincio e con Mantova e Brescia ci interessa per il progetto di macroarea del Garda. Com’è andata per Assolombarda?
Ha perso, non ci sono dubbi. Fortissima come numeri, ha puntato tutto su Garrone per il quale ha fatto molto pressing ma senza portare a casa niente. Almeno per adesso, come dicevamo domani potrebbe cambiare. E poi perdono i past president insieme ai loro candidati Gozzi e Garrone. Anzi, l’elezione di Orsini paradossalmente sta mostrando che con la sconfitta dei big questa si annuncia come una Confindustria delle piccole imprese.
Guardando a Roma direi che invece la politica non ha perso: poteva andare peggio, ad esempio con Gozzi, ma Orsini sia per peso specifico che per modi e tendenza al dialogo sarà sicuramente un interlocutore più gestibile. Non possiamo dire quanto la politica sia intervenuta, ma sicuramente molti voti per Orsini saranno arrivati dai gruppi a capitale pubblico o almeno “ispirati” dalle banche, che in fondo fanno politica economica.
Un’ultima valutazione la vogliamo dedicare a Verona e alla “gemella” Vicenza?
Come effetto pratico abbiamo perso, ma soprattutto perché abbiamo scelto di non giocare la partita pensando ai nostri, di interessi. Ricordiamoci che siamo sì delle territoriali, ma con una forza e uno standing considerevole nel quadro di Confindustria nazionale, confermati dagli associati e dai dati dell’economia reale. Eppure non lo facciamo pesare e non facciamo battaglie. E quando abbiamo un buon candidato, come stavolta Marenghi, lo sosteniamo sì, ma non ci diamo troppo da fare per lanciarlo e spingerlo. Ma domani, per il bene dell’economia locale e della visione di futuro del territorio, questa strategia di starcene alla finestra potrebbe e dovrebbe essere rivista.