(di Gianni Schicchi) Ể significativo che a concludere il ciclo dell’integrale sinfonica di Brahms si sia ottenuta la presenza di una grande interprete come Lilya Zilberstein. Una presenza che ha sicuramente impreziosito ancor più il ciclo, accolto sempre da una consistente affluenza di pubblico. E tanto più averla per l’importante Primo Concerto in re minore per pianoforte, in cui il ruolo assunto dall’orchestra – la dialettica a volte è ancora impari fra questa e il solista – fu invece una conquista destinata a lasciare grandi frutti, dove domina la grandiosità delle concezioni costruttive e dove il solista si adegua alle esigenze dell’espressione musicale complessiva, senza porsi in “un ruolo di assoluto protagonismo”.     

Le doti della Zilberstein, come interprete brahmsiana, sono poi note fin dall’incisione del 1990 per Deutsche Grammophon, a tre anni dalla sua vittoria al Concorso Busoni di Bolzano. Il tema iniziale del Primo Concerto, Maestoso, è venuto e ricordarci subito il suo suono caldo, profondo e incisivo, ma a conferire al dialogo con l’orchestra anche un tono opportuno, di un lirismo ampio e maestoso. Una interpretazione che non era tesa a uniformare il discorso in un flusso di canto costante e omogeneo, ma piuttosto a punteggiarlo di accenti espressivi e contrasti dinamici nella visione di un Brahms più drammatico, inquieto e appassionato.

Il pubblico del Filarmonico ha potuto apprezzare la qualità cristallina dell’interprete, la sua abilità nell’uso della variazione, quasi a confermare gli stati d’animo dell’autore, con le sue meditazioni, incertezze, reticenze, gioie, fino all’affermazione di un benessere psicologico. Una esecuzione anche tecnicamente davvero magistrale, giustamente osannata dal pubblico, con numerose chiamate al proscenio. 

La ripresa del concerto aveva in programma anche l’altra grandiosa pagina, della Quarta Sinfonia in mi minore. Una pagina fondamentale, indubbiamente il capolavoro sinfonico di Brahms, perché con essa il compositore tedesco conclude decisamente il periodo del romanticismo musicale, facendo nascere problemi nuovi dopo aver portato al massimo grado di espressione la tradizionale forma della Sinfonia ottocentesca.

L’approccio del direttore Eckehard Stier alla Sinfonia – aveva accompagnato con sensibilità e misura ammirevoli la Zilberstein – si è mantenuto in una severità e contenutezza che sembravano precludergli quel salto di qualità capace di contraddistinguere un’interpretazione davvero personale e inconfondibile. Qui nulla è stato davvero censurabile, a parte qualche tratto di pesantezza e qualche cedimento di tensione, ma era anche impossibile cogliere spunti che andassero al di là di una chiarezza e nobiltà di fraseggio.

Dopo un Allegro giocoso, veloce, ma altrettanto provvisto di una grinta carica di cupa ostinazione, l’ultimo tempo ha segnato invece uno dei momenti migliori dell’esecuzione riuscendo a conciliare l’accuratezza dei dettagli e la spiccata caratterizzazione espressiva di ogni variazione, con un senso di crescente tensione che è precipitato verso una coda di violenza devastante. Bravo poi Stier per come invece ha fatto fraseggiare il tema dei violoncelli nel secondo movimento della Sinfonia e il modo come a questo si è contrappuntato l’intervento dei primi violini. Consensi vistosi al termine in cui è stata coinvolta l’ottima tenuta dell’orchestra areniana, di cui Stier ha indicato al pubblico tutto il comparto dei fiati e delle percussioni