(di Sebastiano Saglimbeni) Una premessa. “Noi moderni chiamiamo ‘lirica’  la poesia per eccellenza: cioè chiamiamo ‘lirica’ la poesia che è in più alto grado personale e suggestiva, diretta manifestazione del poeta. Anzi ‘lirica’, ‘lirismo’, ‘liricità’ sono divenuti addirittura sinonimi di poesia”.  Così inizia la sua scrittura riguardante la poesia lirica uno dei  grecisti del secolo scorso, Gennaro Perrotta, autore, fra l’altro, del Disegno storico della letteratura greca edito  da Giuseppe Principato nel 1969. Quando le materie umanistiche, il greco e il latino, venivano insegnate nei Licei classici e all’Università, Facoltà di Lettere e filosofia,  questo testo, era stato una validissima guida per l’apprendimento di molti insegnanti e molti studenti.

Resta tuttora, nonostante la cultura umanistica venga elusa in luogo di altro, tale per chi volesse ancora conoscere il grande, illuminante  patrimonio della doviziosa espressione scritta lasciataci dai greci ad iniziare da Omero o di chi per lui. Sui Lirici greci  sono stati divulgati molti testi critici, molti studi, sono state eseguite molte traduzioni con testo a fronte. Apprezziamo le traduzioni del Milleottocento  ma  certamente scegliamo come lettura quelle odierne  volte nel nostro nuovo linguaggio.  Tra gli studiosi contemporanei della grande scrittura greca, Filippo Maria Pontani, autore di un nuovo e magistrale Disegno storico della letteratura greca. Perrotta e Pontani sono morti.

Saffo
foto Inherba

Chi oggi  si può qualificare  un grande grecista, vivo e vivido,  studioso completo di storia trascorsa e recente è Luciano Canfora. Nuovo e condotto alla luce di rigorose, estenuanti consultazioni di testi antichi un suo testo, Storia della letteratura greca, edita daLaterza nel 1999 .Può valere, prima di esprimere dell’altro, non dimenticare l’agile Letteratura greca di Cesare Bione, pubblicata nel 1936 dall’editrice fiorentina La Nuova Italia.  Bione è pure autore  di altri studi sulla scrittura dei greci e dei latini editi dalla medesima editrice. Negli anni del dopoguerra studiammo  su quella sua Letteratura greca e ci servimmo, per le traduzioni dal greco antico, di un  vocabolario da lui curato.

Dopo questa premessa, che vuole essere solo un’agile nota, di seguito allineo i poeti definiti lirici greci, che sono: Callino, Tirteo, Solone, Mimnermo, Focilide, Teognide, Senofane, considerati elegiaci; Archiloco, Semonide, Ipponatte, definiti giambici; Alceo, Saffo, Anacreonte, definiti melodici monodici; Alcmane, Stesicoro e Ibico, considerati melici corali. 

Saffo

 Saffo, probabilmente, parecchio più  giovane di Alceo della stessa isola di Lesbo.  Il poeta in un suo frammento ce la  ritrae dai “capelli di viola e dal dolce sorriso”. Un frammento, questo, da come apprendiamo dalla Storia della letteratura greca di Luciano Canfora, non riferito a Saffo. Alceo, certamente la conobbe e scrisse dell’altro. Aristotele ci custodisce un’ apostrofe del poeta rivolta a Saffo. 

Le notizie sulla poetessa, che pure ho provato a tradurre nella nostra lingua, provengono maggiormente dal Marmo Pario, ch’era una sorta di cronaca  ellenistica incisa di accadimenti,  dai tempi mitici del primo re di Atene, Cecrope, cronaca conservata in due frammenti di lapide trovati a Paro. Altre fonti ci dicono della poetessa, altre notizie si evincono dai suoi testi nei quali si legge di se stessa. 

Nata ad Ereso, tra il  VII e il VI secolo a. C., di origine aristocratica, visse a Mitilene; conseguì molte lodi eccelse dagli antichi. Intorno alla sua figura si generò una fioritura di alcune leggende che predicarono la donna come una morbosa,  pregiudiziali del passato, ora svuotate di ogni effetto con il lesbismo libero considerato una  passione  naturale e, come tale, legalizzata. Sarebbe stata una donna brutta che si sarebbe suicidata, gettandosi dalla rupe di Leucade, in quanto non corrisposta dal giovane Faone.

“Invece le vicende della sua vita, che noi ignoriamo, dovettero avere poco di straordinario”, scrive Cesare Bione nella sua Letteratura greca. Dovette  esulare in Sicilia, a Siracusa, in quanto si era esposta politicamente in quella temperie storica di scompigli nella sua isola e di un succedersi di poteri tirannici. A Mitilene fu l’anima di una consorteria di donne, definita tiaso, non citato mai nella sua scrittura. Ebbe tre fratelli, uno dei quali, commerciante di vini, si compromise con una cortigiana di nome  Dorica. Saffo, tanto preoccupata, espresse parole di dolore, augurando al fratello il ritorno. Ebbe, dal matrimonio con  Cerchila nel 595 a. C. una figlia che eternò in poesia, come bella, di nome Cleide. 

Per il fratello si espresse, rivolgendosi alle divinità delle acque, Venere e le Nereidi con parole che recitano:

                                     Dea di Cipro, Nereidi, fate

                                     che il fratello mi ritorni

                                     sano, si realizzino

                                     i suoi sogni nel cuore,

                                     fate che sperda le sue vecchie colpe,

                                     respiro ai cari suoi,

                                     e pena ai suoi nemici.

                                     Non più per noi angosce.

                                    Io sono sua sorella: se sentisse

                                    di onorarmi…

                                    e scordasse gli affanni

                                    (pativa allora e mi assaliva il cuore)…

 Per la figlia Cleide, per la quale avrebbe ceduto  tutta la  ricca Lidia, si espresse con questo frammento che recita:

                          Una bella fanciulla mi è figlia, simile

                           ai fiori d’oro: è il mio amore, Cleide si chiama.

                           Per lei io cederei tutta la Lidia…

Per la storia del suo amore contro natura, ci pare di considerare  che i suoi rapporti con le ragazze del tiaso, di provenienza aristocratica, erano strettissimi e di una predilezione intensa che riscontriamo nella sua scrittura pervenutaci. Saffo ricorda le ragazze assenti con  una struggente tenerezza, e le descrive nel loro incedere, nelle loro grazie, nel loro vestimento. I frammenti o i testi pervenuti non completi ci possono oggi comunicare  quella sua tenerezza per  le presenze muliebri giovani al suo seguito. 

C’ è un frammento molto riportato nei testi scolastici, di un significante straordinario. Ѐ il testo della mela, dimenticata in cima all’albero dai raccoglitori, che in effetti non dimenticarono, non poterono, invece,  averla, a significare il pudore della donna, l’attesa giusta  della donna per convolare a nozze.

Si parla nei libri della cultura greca che molti testi,  custoditi dagli antichi, erano epitalami, testi commissionati per le circostanze delle nozze e destinate al canto durante la festa. Questi testi ci fanno pensare a quelli che molto tempo dopo scrisse Catullo e che sono in nostro possesso. Nella nostra letteratura moderna, Saffo viene fatta rivivere.   Basti pensare al filosofo idealista Platone che considera la “decima musa”, allo storico Strabone che la considera “un miracolo”, ad Ugo Foscolo e a Giacomo Leopardi. Il Foscolo, ispirato dalla leggendaria morte per suicidio  della poetessa, ricorda la propria nascita nel mare di Itaca laddove vaga lo spirito di Saffo, la fanciulla di Faone. Lo scrive  nei seguenti versi dell’ode “Alla amica risanata”: 

                                               …   Ebbi in quel mar la culla, 

                                                     ivi erra ignudo spirto

                                       di Faon la fanciulla.

 Il Leopardi fa parlare la poetessa  nel suo testo: “Ultimo canto di Saffo”. La poetessa rimpiange l’infinita bellezza dell’universo, che non le fu lecito godere.

                                   …   Bello il tuo manto, o divino cielo, e bella

                                          sei tu, rorida terra. Ahi di codesta 

                                          infinita beltà parte nessuna

                                         alla misera Saffo i numi e l’empia

                                         sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni

                                         vile, o natura, e grave ospite addetta,

                                         e dispregiata amante, alle vezzose

                                         tue forme il core e le pupille invano

                                         supplichevole intendo…

                                         Qual fallo mai, qual si nefando eccesso

                                         macchiommi anzi il natale…

 I temi  espressi in dialetto eolico sanno di una  dotazione di sintesi e di chiarezza straordinarie.

Alceo

Dalla scrittura (liriche e frammenti), in dialetto eolico, di Alceo, che abbiamo provato a volgere nella nostra lingua, ci perviene un’espressione di poesia  remotissima  che parla, vibrante, ai lettori del ventunesimo secolo. Il poeta nacque a Mitilene, nell’isola di Lesbo, nel 630 circa a. C. L’ isola era terribilmente sconvolta da sanguinose lotte interne. Mentre giovane, si unì  ai suoi fratelli che avevano congiurato contro l’odiato tiranno Mirsilo, successo a Melancro, dello stesso sangue.

Una coraggiosa congiura di sopprimerlo fallì e il poeta e gli altri  furono  costretti alla fuga e a riparare a Pirra, una comunità di Lesbo, ove non si arresero e resistettero  per preparare la via del ritorno in patria. La fuga, si può pensare, coincide con il periodo, tra il 606 e il 590 a. C. , dell’esilio  di Saffo in Sicilia. Mirsilo venne ucciso in combattimento e  il poeta, pienamente sazio di quella morte, emise il suo grido “barbarico” e volle come fermarla, per tramandarla, nei versi che recitano:

                                                 Ora bisogna bere, dobbiamo ubriacarci,

                                                 sino a crepare:  Mirsilo non esiste.                                             

 Con la scomparsa di questo tiranno, il popolo, per liberarsi dagli incalzanti disordini, scelse come guida Pittaco, che  governò pacificamente per un decennio. Un tiranno sapiente, un dittatore moderato, che non disdegnò di favorire il ritorno in patria   degli esuli. Fra questi, Alceo, che, dopo, combatté a fianco dello stesso Pittaco contro gli Ateniesi. I combattenti di Militene subirono una sconfitta e il poeta buttò lo scudo e si  proclamò salvo.                                    

Prima di lui,  il  poeta Archiloco si era liberato da quell’arnese  di guerra ma aveva confessato il gesto e “con la sua ironia e nobiltà ionica, se ne era consolato e aveva saputo  sorridere. Alceo “non sapeva ridere, né sorridere”. (Gennaro Perrotta). 

 Quel gesto di   Archiloco e Alceo sarà inteso molto tempo dopo, nel 42 a. C., da Orazio combattente a Filippi. Il poeta latino conosceva sia Archiloco sia Alceo.   Nel  Secondo libro delle Epistole, vanta che, da poeta lirico latino, aveva fatto conoscere Alceo, mai prima ricantato da altra bocca (non alio dictum ore).

 Alceo fu costretto di nuovo ad esulare, forse in Egitto e in Tracia: ostinato contro  Pittaco, l’aveva valutato  un uomo di provenienza maligna, un “tiranno di uno stato infame e debole”, un complice di Mirsilo. Pittaco gli  fu  clemente, lo perdonò e lo fece rientrare in patria. 

Nelle liriche e nei frammenti della nostra versione, un po’ libera e letterale, vi leggiamo l’affetto che il poeta nutrì nei confronti del fratello Antimanida, combattente a servizio dei Babilonesi ed uccisore di un uomo imponente. Un orgoglio nel poeta per un fratello combattente, scampato alla morte, e un senso di smarrimento per l’ uomo  ucciso. 

 Un atto di religiosità, il testo con il quale invoca i Dioscuri, perché lo proteggano  durante un suo viaggio insidioso in mare. In un altro testo motiva alle battaglie i compagni con la descrizione di un piccolo arsenale  vibrante in una sala.

 Alceo, come si desume dalla sua scrittura, maturò una vecchiaia longeva in patria, addolcita dall’ozio, dai godimenti dei simposi, dall’eros e dalla poesia. Con il verso, più di altri poeti, inneggiò al succo delle uve, al vino  ottimo, che andava bevuto in abbondanza, come terapia, per offuscare quegli eccessi grevi del passato tempestoso ma pure dell’inverno tempestoso, sinonimo di vecchiaia. In nome del vino si sentiva come stimolato alla vita fertile, combattiva e creativa.

                                                 Beviamo, prima che spunti il sole! Il tempo

                                                 fugge,  prendi le coppe   policrome.

                                                 Il figliolo di Semele e di Zeus 

                                                 ci donò il vino, per dimenticare.

                                                 Versa, e dopo una coppa,

                                                 ne segua un’altra, un’altra.              

Alceo, che godette se stesso, pure intese gli smarrimenti di una donna invaghita non corrisposta  e che si compiangeva:

                                                Sono una meschina, una meschina.

                                                Sono minata da tutti i mali.

Per una poetessa, più o meno, sua coetanea e isolana come lui, esclama  con fine galanteria: 

                                          O Saffo dai capelli di viola, dolce sorridente!

 Da queste pochissime parole del frammento, una testimonianza di una esistenza muliebre delicata e solare, ma che non sfata  le sue morbosità divulgate da certe  leggende, perché  lo stesso Alceo pure indirizzò alla poetessa un’apostrofe, secondo Aristotele che ce la conserva.  

Ed ancora il vino. Alceo scriveva, senza tanto consacrarla:

                                             In luogo di altri alberi, la vite. 

 Orazio, con assoluta preferenza, scriverà:

                                    Non pianterai nessun albero prima della sacra vite. 

E gli deriverà dai versi, che dicono della morte di Mirsilo, quel notissimo incipit del trentasettesimo testo del Primo libro delle Odi:

                                              Nunc est bibendum, nunc pede libero

                                              pulsanda tellus…, 

per solennizzare la morte della regina di Egitto Cleopatra che aveva osato sfidare con la guerra la potenza di Roma. 

Diversi secoli dopo, Giosue Carducci,  nel  denso testo dal titolo “Per il LXXVIII anniversario dalla proclamazione della Repubblica francese”, della silloge Giambi ed Epodi, ricorrerà, come altre volte, al vino fremente, per scuotere ogni torpore, per affogare il tedio, e lo reclamerà assieme al “ferro” per uccidere i nuovi tiranni della Francia e per festeggiare. E, come strenuo difensore del classici, rievocando nella quarta strofa  Alceo dalla poesia immortale, scriverà:

                                             Vino e ferro vogl’io come a’ begli anni

                                             Alceo chiedea nel cantico immortal:

                                            il ferro per ucciderne i tiranni,

                                             il vin per festeggiare il funeral.   

Non si esclude che il “leone maremmano”, pensasse  all’altro grande poeta greco,  Archiloco che nella “lancia” vedeva il suo pane e il suo vino di Ismaro.

Dall’eros, di cui sopra si accennava, come esempio, un tratto del testo “Nelle acque del fiume”:

                                        (…)  Uno stuolo di vergini nei guadi;

                                        agili mani toccano le cosce,

                                        fresche  carni. L’ acqua divina

                                        un  unguento.

 La scrittura di Alceo venne ordinata dagli Alessandrini in 10 libri. Che sono: Inni, Stasiotikà, Skolia e Sympotika, Erotikà ed altro.

* Amaranti li Lesbo (Fiori che non appassiscono) Che sono Saffo e Alceo